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Irriducibile alla pura materia e incomprensibile con i soli strumenti del pensiero, nel teatro di Luca Archibugi si svolge, né più né meno, tutta l'esistenza umana nella sua assoluta, integrale e beffarda portata: un teatro degli opposti che solo all'apparenza contrastano perché lo scambio di battute tra i due estremi non è che un modo - l'unico concesso - per attraversare, dileguando, quel tempo e quello spazio che, con non poca incoscienza, chiamiamo realtà. Racchiusa per la prima volta in un unico volume e immune al deteriorarsi dei contesti, la scrittura drammaturgica di Archibugi dispiega - dal suo esordio sul finire degli anni Settanta fino agli ultimi esiti - un'orfica potenza evocatrice che mette alla berlina le approssimative distinzioni tra iperuranio dei massimi sistemi e corvée quotidiana: un'infedeltà complice - e lunga, come quella, testimoniata in appendice alla raccolta, che lega Archibugi alle pagine critiche di uno scrittore come Franco Cordelli. Un'infedeltà in cui il gesto tradisce il segno e - senza cascami - il classico irrompe nell'attuale. Ovvero - come nota Attilio Scarpellini nella Prefazione a questo libro citando dal prologo di Edipo di Spinaceto - «in mezzo a quelle cose che la memoria ha trapiantato già in un limbo, e ha però tenuto ferme quasi a conferire certezza alla nostra vita».